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Nell’ospedale delle gambe. L’italiano che fa camminare Kabul

In Afghanistan, fra guerre tribali e terremoti, è ancora emergenza. Qualcuno però ha deciso di lavorare con e per i mutilati di questo Paese. (di Daniela Binello)

di Redazione

E’ un timidone, Alberto Cairo, 49 anni. Dal 1988 lavora ?non stop? per la Croce rossa internazionale all?interno dell?ospedale ortopedico di Kabul. Dirige il laboratorio per la costruzione e l?applicazione delle protesi per le vittime di guerra, d?incidenti e per persone colpite da malattie invalidanti come la polio. Partito ?studentello? da Ceva, dalle parti di Cuneo, alla volta di Torino per frequentare giurisprudenza a Palazzo Nuovo, si trasferisce poi a Milano col desiderio d?entrare a far parte di un?organizzazione umanitaria internazionale e partire per «chissà dove». Da Ceva a Kabul via Ginevra Si specializza in fisioterapia e comincia a lavorare per la grande Icrc di Ginevra, il Comitato internazionale della Croce rossa. Per un certo periodo si trova fianco a fianco con Gino Strada, ma poi questi decide di fondare Emergency e fra i due, a Kabul, intercorrono ormai rapporti esclusivamente di ?buon vicinato?. Nella capitale afghana, Cairo vive in un modesto appartamento da 200 dollari al mese, dove, se c?è bisogno di un po? di acqua, bisogna andare ad attingerla al pozzo, in cortile. Quando gli chiediamo se si consideri un missionario, la risposta è decisa: «Assolutamente no. Sono un italiano che ha scelto di lavorare qui». Se lo dice lui… I pagliacci al seguito di Patch Adams, il buffo chirurgo americano che tenta di alleggerire le sofferenze dei bambini malati sono appena stati a Kabul e hanno lasciato un ricordo nel laboratorio di Cairo. Mentre lo intervistiamo giocherella infatti con un naso finto e un rosso pomo di spugna. Nelle mani di uno spilungone ?nervoso? e di bell?aspetto, regala una parvenza da raffinato clown. Intorno a noi, intanto, nel laboratorio-catena di montaggio si sta svolgendo una movimentata attività per la produzione di arti sintetici personalizzati. Meglio perdere una gamba o un braccio? Domande come questa non sono così strane in un luogo dove tutti, personale compreso, sono privi di una parte del corpo. I 160 lavoratori del centro (ma Icrc gestisce 302 addetti, di cui 35 donne, in sei punti del Paese) sono portatori d?handicap. Uno stipendio medio si aggira sui 150 dollari mensili, ma in Afghanistan non esistono previdenza sociale e liquidazione. «Non c?è alcun dubbio», risponde deciso Alberto Cairo. «È meglio perdere una gamba, o anche tutte e due, che rimanere privi di un braccio. Senza arti superiori non puoi fare quasi nulla e la tua vita sarà davvero disperata, mentre con le protesi alle gambe, o in carrozzella, sei in grado perfino di gestire un?attività, come un negozietto. Questo è il problema. Abbiamo capito che alle persone che vengono da noi non è sufficiente installare una protesi». Così si sono inventati il microcredito, il job center e i corsi per imparare un mestiere. Ai pazienti che ne fanno richiesta, dopo una serie di colloqui approfonditi, si fa compilare un progettino su come vorrebbero lavorare e di quanti afghani (la moneta locale) hanno bisogno. Poi, verificata la fondatezza della richiesta, è accordato un prestito ?a tempo?. Ad esempio, per il corrispettivo di 100 dollari. Con questa somma in Afghanistan si compra un carrettino per la vendita di sigarette o di altri prodotti. Le donne, che non lavorano mai fuori casa, chiedevano prestiti per comprare galline o capre, che poi spesso morivano a causa delle epidemie. Allora si è deciso d?indirizzarle verso attività come la sartoria, la confezione di merci o il piccolo artigianato. Mentre visitiamo il laboratorio, suddiviso in diversi ambienti, intorno a noi si continua a lavorare con frenesia. Alcuni operai sono appoggiati al banchetto del tornio e della macchina che fonde le plastiche. Hanno solo il tronco, perché le gambe se l?è portate via una mina. Accanto c?è la carrozzella dove, senza aiuto, si metteranno a sedere a fine turno. Attraversiamo il reparto costruzione e manutenzione dei modelli per le protesi (si ritocca col gesso ogni buchetto che provoca usura), il reparto riciclaggio materiali (da vecchi copertoni e camere d?aria si ricava la gomma) e fusione, quindi la divisione di cosmesi dove gambe e braccia artificiali sono rivestite con fogli di plastica morbida color carne. Ecco il reparto per la riabilitazione. Qui le persone imparano a camminare con i nuovi arti o a manovrare la carrozzina. Ma c?è anche chi, guidato dalle fisioterapiste, tenta di recuperare una funzionalità senza però riuscire ad abbandonare il letto. Ma qui ha ritrovato il sorriso. Come quel ragazzo maledettamente storto, disteso, che Cairo ha riportato a scuola da dove l?avevano cacciato con il pretesto che «se non c?è posto per i sani, figuriamoci per gli storpi». Anche questa battaglia è stata vinta. Una su tante. Protesi senza Prozac Assistiamo a diverse dimostrazioni di istallazione di una protesi ?a crudo?. Alcune persone cominciano a smontare e rimontare braccia e gambe davanti a noi. La loro naturalezza è sorprendente. Viene da chiedersi se occorra un sostegno psicologico. Le vittime di queste spaventose mutilazioni non diventano matte? Cairo prende la parola: «Qui la depressione non esiste. Gli afghani sono tipi tosti.I matti sono pochi. Al massimo ci sono episodi di malinconia. La prima cosa che ci dicono i pazienti è che vogliono lavorare». In questo contesto non serve il Prozac per guarire dalla malinconia. Cairo conferma, ma per le donne non è così facile. Il medico italiano spiega chiaramente come «la malinconia è uno stato passeggero. Poi si ricomincia a vivere, si vuole andare avanti a tutti i costi. La situazione è peggiore per le ragazze mutilate. Loro non troveranno mai più un marito e, senza il sostegno della famiglia, qui sono destinate a patire molto. Sappiamo che in Afghanistan si verificano parecchi suicidi fra le disabili. Non ci sono vie d?uscita: o ti sposi o ti sposi, e solo in questo caso qualcuno penserà al tuo sostentamento. Resti sola. Fai la mendicante o muori di fame. Per farla finita spesso si danno fuoco. Qualcuno racconta come le donne si stiano togliendo il burqua e tornino all?università. Non è proprio così». Croce Rossa. Quattro anni di guerra alle mine Il progetto della Croce rossa internazionale d?installare laboratori per protesi in Afghanistan è iniziato nel 1988 ed è stato affidato ad Alberto Cairo. Esistono sei centri dove lavorano altrettanti operatori internazionali. Finora sono stati aiutati 48.451 pazienti di cui 26.241vittime delle mine (il 70 per cento). La maggior parte sono maschi adulti (82 per cento), l?11 per cento sono ragazzi. Il resto donne .Dal 1996 è attivo un programma di riabilitazione per paraplegici. Un ?Home care teams? fa visite domiciliari per chi non può muoversi. Solo a Kabul sono oltre 300 persone. Per il microcredito Cairo ha a disposizione poco più di mille euro l?anno. Daniela Binello


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